Se mio figlio è maggiorenne devo continuare a versare l’assegno per il suo mantenimento? E se ha iniziato a lavorare?
In un precedente articolo abbiamo esaminato, nelle sue linee generali, il contributo al mantenimento in favore dei figli successivamente alla separazione dei genitori. Approfondiamo ora la problematica del contributo al mantenimento in favore dei figli che maggiorenni o, addirittura ultra maggiorenni, lavorano con contratti a tempo determinato (apprendistato, a progetto, ecc.). Con guadagni che, considerata la convivenza nell’ambito del nucleo famigliare di origine, possono essere considerati certamente dignitosi ma risultano al limite di una reale autonomia.
Quando il figlio, secondo la giurisprudenza, può ritenersi economicamente autonomo?
La giurisprudenza di legittimità ritiene che l’obbligo di mantenimento dei figli maggiorenni venga meno quando il genitore onerato fornisca la prova che il figlio ha raggiunto l’indipendenza economica. Lo stesso vale se il mancato svolgimento di un’attività lavorativa dipende da un atteggiamento colposo/inerte del figlio medesimo.
Secondo la Corte di Cassazione il raggiungimento dell’indipendenza economica “non coincide con l’instaurazione effettiva di un rapporto di lavoro giuridicamente stabile ma con il verificarsi di una situazione che fa ragionevolmente dedurre l’acquisto della autonomia economica” (Cass. Civ, 28/08/2008 n. 21773). La detta condizione di indipendenza si ha “anche in presenza di un’attività lavorativa caratterizzata da contratti a termine e guadagni contenuti”. Ciò sancisce che se a causa del licenziamento, delle dimissioni o di altra causa, il rapporto lavorativo venga meno, è sufficiente la mera potenzialità del conseguimento dell’autonomia economica (Cass. Civ. n. 23596 del 2006) per far venire meno l’onere del contributo al mantenimento in capo al genitore onerato.
La Corte di Cassazione, quindi, ritiene sufficiente, per il venir meno del contributo, l’espletazione iniziale di un’attività lavorativa. Basta dimostrare l’avvenuta acquisizione di un’adeguata capacità lavorativa (Cass. Civ., 22/11/2010 n. 23590; Cass. Civ, 16/05/2017 n. 12063), con concrete prospettive di indipendenza e continuità.
In tal senso si è anche espresso il Tribunale di Roma, con provvedimento 16/06/2017. Secondo questo Tribunale l’obbligo del contributo al mantenimento nei confronti dei figli, “trova il suo limite logico e naturale allorquando i figli siano stati messi in condizioni di reperire un lavoro idoneo a sopperire alle normali esigenze di vita, o ancora quando abbiano ricevuto la possibilità di conseguire un titolo sufficiente ad esercitare un’attività lucrativa”.
Diversi Tribunali italiani hanno poi sancito che, nel momento in cui il figlio maggiorenne abbia raggiunto una sua dimensione di vita autonoma, in forza di un principio che possiamo definire di ‘auto responsabilità’, lo stesso non potrà pretendere che l’obbligo al mantenimento si protragga oltre ragionevoli limiti di tempo e di misura.
Anche il Tribunale di Pavia, con decisione del 11/07/2018, ha revocato il contributo in favore di una figlia maggiorenne occupata con contratti a tempo determinato. Ha, infatti, sancito che: “per quanto lo stipendio sia modesto, non può ritenersi che la ragazza possa, al momento, ambire a una situazione lavorativa migliore, data la sua bassa formazione professionale e dato il notorio stato dell’occupazione giovanile”.
E se il figlio maggiorenne lavora in modo del tutto saltuario o studia con scarsi risultati?
Ma oltre a questa realtà vi è anche quella, quanto mai attuale, dei figli che non lavorano o lo fanno saltuariamente. Ci sono poi figli che non studiano o studiano con scarsi risultati.
In questa realtà ha posto un tassello (seppure discutibile) il Tribunale di Milano. Esso, chiamato a decidere sul contributo al mantenimento in favore di un figlio quarantunenne disoccupato, con ordinanza del 29/03/2016, ha evidenziato che, al superamento di una certa età, il figlio maggiorenne, anche se non indipendente, raggiunge comunque una dimensione di vita autonoma. Ciò lo rende al più meritevole dell’assegno alimentare ma non più del mantenimento ordinario.
Non solo, nel caso in esame, il citato Tribunale di Milano (ripreso recentemente dal Tribunale di Modena, con sentenza del 01/02/2018 n. 165), facendo riferimento al principio di auto responsabilità più sopra richiamato, ha evidenziato che, la valutazione delle circostanze che giustificano il permanere o meno dell’obbligo dei genitori al mantenimento dei figli maggiorenni, non deve sfociare “in forme di parassitismo di ex giovani in danno dei loro genitori sempre più anziani”. Concludendo che: “in linea con le statistiche ufficiali, nazionali ed europee, oltre la soglia dei 34 anni, lo stato di non occupazione del figlio maggiorenne non può più essere considerato quale elemento ai fini del mantenimento, dovendosi ritenere che da quel momento in poi, il figlio stesso possa, semmai, avanzare le pretese riconosciute all’adulto (v. regime degli alimenti)”.
Cosa si intende per diritto agli alimenti?
Si ricorda che il diritto alimentare si differenzia dal contributo al mantenimento. Il primo deve ovviare alle sole necessità fondamentali della vita quotidiana del figlio, mentre il secondo deve soddisfare tutte le esigenze della vita di una persona. Questo anche in relazione al tenore di vita goduto all’interno della famiglia d’origine.
E cosa ha detto la Corte di Cassazione sul limite di età entro il quale poter continuare a godere del contributo al mantenimento?
Riprendendo il discorso del limite d’età, proprio con riferimento al citato limite dei 34 anni, invero, la Corte di Cassazione, con sentenza del 12/03/2018 n. 5883, lo ha individuato in ‘soli’ 30 anni, pur in presenza, nel caso dalla stessa affrontato, di una situazione particolare quale quella del mutamento del sesso del figlio richiedente il contributo. Ritenendo di dover presumere che a detta età vi sia il raggiungimento di una situazione di indipendenza economica ovvero di una capacità lavorativa. Situazione superabile solo da una conclamata ricerca di una posizione lavorativa che non abbia dato esito positivo.
Sulla linea del Tribunale di Milano, ed altrettanto discutibile, a parere di chi scrive, è il provvedimento della Corte d’Appello di Trieste del 03/05/2017. Tale Corte, chiamata a decidere sul diritto al mantenimento di una ragazza ventisettenne iscritta al settimo anno della laurea triennale, ha confermato la decisione del Tribunale di Pordenone del 02/03/2017. È stato disponsto l’obbligo del padre di continuare a versare il contributo al mantenimento in favore della figlia, pur riducendolo. Ciò poiché: “pur a fronte di un non efficace impegno di X nello studio e nel lavoro, dato certo e sicuro che non le rende certe onore e che ella dovrà impegnarsi a superare, è anche vero che nell’attuale momento economico ed alla stregua dell’ ‘id quod plerumque accidit’ si deve riconoscere, in generale, la possibilità di una certa inerzia nella maturazione che porta all’indipendenza dei giovani ragazzi”.
Evitare il “parassitismo”
Sostanzialmente, quindi, la Corte d’Appello di Trieste, ha ravvisato nel sentire comune tale diritto delle nuove generazioni a ‘non impegnarsi’. Additando, forse, le generazioni passate nell’aver permesso ai giovani d’oggi una certa inerzia nel trovare una loro emancipazione economica.
Invero, parrebbe più corretto, che i nostri Tribunali, svolgessero più approfonditi accertamenti innanzi ad ogni singola situazione. Questo per verificare se vi sia effettivamente o meno un’inerzia colpevole del figlio maggiorenne. Evitando evitando quelle forme di ‘parassitismo’ che proprio il Tribunale di Milano, richiamando la Corte di Cassazione (sentenza del 07/07/2004 n. 12477), avrebbe voluto evitare.
Lo Studio rimane a Vostra disposizione per esaminare i singoli casi che ci vorrete sottoporre.
Avv. Silvia Remmert
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