Successivamente all’introduzione nel 2001 (L. n. 154/2001) degli ordini di protezione contro gli abusi familiari (artt. 342 bis e ter c.p.c.), il legislatore italiano non era mai più tornato ad occuparsi di atti di violenza all’interno del processo civile. A distanza di vent’anni, il legislatore delegato, nell’ambito della riforma del processo civile, non potendo più ignorare l’aumento esponenziale dei casi di violenza domestica e di genere registrato nel tempo nel nostro Paese, ha previsto un intervento incisivo e sistematico attraverso l’introduzione nel nuovo Titolo IV bis, Capo III – “Disposizioni particolari” del Codice di procedura civile, di un’intera sezione rubricata: “Della violenza domestica o di genere” (artt. da 473 bis.40 a 473 bis.46). L’intento di dette norme è quello di dotare il giudice delle controversie familiari di più ampi poteri, nonché di strumenti specifici per garantire tutela adeguata alle vittime di violenza domestica e secondaria.
Cosa si intende per violenza domestica?
Una relazione del Ministero della giustizia la definisce “forma di violenza che si realizza quando le stesse autorità chiamate a reprimere il fenomeno della violenza domestica, non riconoscendolo o sottovalutandolo, non adottano nei confronti della vittima le necessarie tutele per proteggerla da possibili condizionamenti o reiterazioni degli atti violenti”. Un intervento riformatore era necessario e non più procrastinabile, tenuto conto anche del fatto che la violenza nell’ambito dei nuclei familiari, oltre a configurare una violazione dei diritti umani, rappresenta un problema di sanità pubblica, essendo che i suoi effetti negativi si ripercuotono sia a breve che a lungo termine sulla salute fisica, mentale, sessuale e riproduttiva della vittima. Invero, le conseguenze della violenza sulle donne vanno dall’isolamento all’incapacità di lavorare o di prendersi cura dei propri figli, alla depressione, alla dipendenza da alcool, ecc. Allo stesso modo, i minori che assistono alla violenza all’interno del nucleo familiare spesso accusano disturbi del comportamento e in genere soffrono di disturbi emotivi. Da ultimo, attraverso l’introduzione di norme speciali dedicate ai casi di violenza all’interno delle mura domestiche, il legislatore italiano consacra un principio già affermato dalla giurisprudenza di legittimità e cioè che il diritto alla bigenitorialità può subire delle limitazioni, qualora ai figli vittime dirette o secondarie di violenza, possa derivare grave pregiudizio dalla frequentazione del genitore abusante o maltrattante.
In quali procedimenti si applica la disciplina?
Le nuove norme speciali si applicano ai procedimenti ove siano allegati abusi familiari o condotte di violenza perpetrata nelle mura domestiche dal partener o nei confronti di figli minori. Lo scopo è quello di fornire una “corsia preferenziale” a tali procedimenti. Non occorre una denuncia espressa o specificatamente rivolta a far cessare le violenze e gli abusi; è sufficiente che anche solo in uno degli atti introduttivi di un procedimento siano ravvisabili accenni ad atti violenti di genere oppure ad abusi in ambito domestico, per dare avvio ad un rapido accertamento della fondatezza delle allegazioni. Questa circostanza intende ovviare alla frequente ritrosia delle vittime a denunciare soprusi, per un loro naturale riserbo, per la speranza che le violenze e gli abusi cessino nel tempo o per le minacce loro rivolte per ottenere silenzio.
Quali tutele sono previste nel corso del procedimento per la persona vittima di violenza?
Ai sensi dell’art. 473 bis.42 comma secondo c.p.c., al giudice e ai suoi ausiliari è dato compito di tutelare la sfera personale, la dignità e la personalità della vittima, nonché di garantirne la sicurezza. La norma non specifica con quali modi e mezzi possa essere tutelata la sfera personale della vittima; tuttavia, una modalità suggerita è quella di evitare la simultanea presenza delle parti in occasione di un determinato adempimento. Altre misure possono concretizzarsi nella secretazione dell’indirizzo ove la vittima dimora, laddove questa sia collocata in una struttura protetta, ovvero nel non diffondere notizie e nel non rivelare i nominativi dei testimoni.
È possibile la mediazione familiare laddove vi siano allegazioni di violenza?
No, non solo è data indicazione al giudice di omettere il formale invito alle parti a cercare una tale forma di composizione dei loro rapporti, ma più in generale, vige il divieto di dare inizio al percorso di mediazione quando è stata pronunciata sentenza penale di condanna o di applicazione della pena, anche solo in primo grado, ovvero è pendente un procedimento penale per le condotte di abusi familiari o di violenza domestica o di genere. Se nel corso di una mediazione familiare dovessero emergere notizie di abusi o violenze domestiche, l’art. 473 bis.43 dispone in capo al mediatore familiare, l’obbligo di interrompere immediatamente la mediazione.
È previsto un ascolto del minore in queste circostanze?
Si, è previsto, salvo l’ipotesi in cui il minore sia già stato ascoltato nell’ambito di un altro procedimento, anche penale e le risultanze possano considerarsi esaurienti e quindi sufficienti. Al di fuori di questa specifica eventualità, si segue la disciplina generale in tema di ascolto del minore dettata dagli articoli 473 bis.4 e 5, con la precisazione che è il giudice personalmente a dover provvedere all’ascolto. A tutela del minore, va evitato ogni tipo di contatto con l’autore degli abusi o delle violenze.
In cosa consiste un “ordine di protezione”?
L’ordine di protezione contro gli abusi familiari è un provvedimento che può essere emesso dal giudice già all’esito dell’istruttoria sommaria, laddove ravvisi la fondatezza delle allegazioni di fatti di violenza/abusi. Con l’ordine di protezione il giudice può ordinare all’autore/autrice della violenza/abuso la cessazione della condotta tenuta, oltre ad una serie di altre misure in via alternativa o cumulativa tra le quali: l’ordine di allontanamento dalla casa familiare, l’ordine di non avvicinarsi ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima della violenza (es. luogo di lavoro, domicilio, luogo di istruzione dei figli), nonché una misura di contributo economico per le persone conviventi, le quali, in conseguenza dell’allontanamento rimarrebbero prive di sostentamento.
Avv. Fabio Deorsola
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